La
nostra storia didattica
È
opportuno iniziare con una breve riflessione sugli elementi negativi
o rimasti a uno stadio di bassa riflessione: forse in questo modo si
può iniziare a fare un po’ di chiarezza.
Sulle
nostre scelte didattiche ha pesato – e continua a pesare – la nostra
formazione individuale, perciò c’è chi “piega” verso la
psicologia, chi verso la sociologia, chi – sciaguratamente – verso la
filosofia, chi, ancora, recupera elementi di pedagogia, ma quasi nessuna
assume come punto di riferimento centrale l’antropologia culturale.
Sia perché si riflette nella scuola la percezione della modesta
rilevanza dell’antropologia (in Italia non esiste una facoltà
di Antropologia) sia perché – lo dico brutalmente – è
una disciplina che va studiata, a lungo, va meditata, a lungo, ne va
penetrata l’ottica epistemologica, a lungo, prima che possa dare contributi
didattici rilevanti. Gli insegnanti non sono certo stati facilitati
dal cambio di destinazione d’uso, in corsa, dall’Istituto magistrale
al Liceo delle scienze sociali: si sono dovuti adattare scontando un
retroterra cognitivo-professionale in genere del tutto inadeguato (penso
alle quasi 300 scuole coinvolte, è ovvio che vi sono delle positive
eccezioni). Anche gli istituti che hanno dato vita fin dal ’74 a un
Indirizzo di scienze umane e sociali si sono avvicinati all’antropologia
molto tardivamente e in modo non meditato: insomma, aggiungiamo anche
l’antropologia.
-
l’equivoco antropologico: data questa base
di scarsa riflessività, anche quando è entrata l’antropologia
nei nostri curricoli si è rimasti allo stadio che Harrison
ha definito di “antropologia spontanea”, pre-disciplinare, difatti
si sono letti autori un po’ a caso, senza un progetto e senza la
consapevolezza della cornice epistemologica propria dell’autore.
Ad esempio si è molto letto, e si continua a farlo, Sesso
e temperamento e/o L’adolescenza in Samoa, che vanno
bene, niente da dire, però si confonde il semplice con il
semplicistico – difetto indifendibile di questi saggi – e inoltre
quasi sempre non si tiene conto della cornice epistemologica legata
alla teoria di cultura e personalità che esclude qualsiasi
influenza ambientale, sostiene che la personalità è
interamente costruita dalla cultura, dà una tale idea fissista
della cultura che permette agli antropologi di questa scuola di
stabilire, quasi ontologicamente, i “caratteri” di intere società,
che è ciò che noi, ora, definiamo stereotipi pregiudiziali:
gli Arapesh “femminili” valgono quanto gli Scozzesi – o i Genovesi
- taccagni. La lettura dei testi va accompagnata da una vigilanza
critica-antropologica, altrimenti si trasmettono equivoci cognitivi.
Inoltre, come già rilevato, quasi sempre l’antropologia “si
aggiunge” alle altre discipline e spesso, per inconsistenza teorica,
si fa passare per antropologia ciò che non è.
-
l’equivoco “storico”: la prima parte della
definizione dell’asse culturale, storico-antropologico appunto,
è stata e continua ad essere la più bistrattata. O
la si è ridotta al quadretto storico o la si è appiattita
sulla storia tout-court ritenendo che la povera storia che
si insegna nei nostri licei sia una scienza sociale (la nostra è
una storia da guerre puniche) o, in ogni caso, si è innestata
nella mentalità storicistica della scuola italiana, malata
di torcicollo – la testa tende sempre a girarsi in dietro – riproducendo
un modello storiografico da paradigma pre-moderno (cfr. K. Kumar,
Le nuove teorie del mondo contemporaneo, Einaudi, in cui,
tra l’altro, ricostruisce il senso del tempo storico dall’antichità
alla postmodernità: il nostro “guardare indietro” finisce
con l’Ottocento. Chiaro che il discorso cambierebbe se passasse
la lezione delle “Annales” che considera la storiografi “storia
sociale collettiva” secondo la definizione di Braudel che ritiene
le scienze sociali fondanti la ricostruzione storica. Si veda ad
esempio Storia, misura del mondo). Su questo innesto è
anche nata la passione per la storia dell’antropologia – come la
storia della filosofia, della letteratura, della scienza, ecc. Lo
“storico” in realtà intendeva rinviare al concetto di “storicamente
determinato”, l’idea che la cultura sia un sistema di relazioni
simboliche che cambia nel tempo, che la cultura fa coppia con società,
tutto al plurale, culture e società, appunto storicamente
determinate. Ma da ipotesi interpretativa aperta – dal collegare
e coniugare con il concetto di “contesto” di Morin – tende a diventare
un sistema chiuso, per quelle derive semplificatrici-semplificanti
tanto dannose quanto sempre presenti nella scuola. Si cade così
in quello che Carlo Tullio-Altan chiama errore sociologistico che
vede la realtà sociale come qualcosa di assolutamente separato
e in se stesso autosufficiente (in Antropologia). Dominante
in questa visione è il paradigma della modernità che
interpreta lo spazio-tempo in termini di pura linearità progressiva
e sottende una tensione verso l’oggettività e una fiducia
nella soggettività “forte”. Si è arrivati alla scoperta
della modernità – una sicura conquista dell’indirizzo – senza
rendersi conto che anche questo modello sociale è storicamente
determinato e soprattutto finito e se ne sono assunti i paradigmi
più rassicuranti. Si procede a vista: le debolezze didattiche
dipendono dalla mancanza di riflessione epistemologica: una constatazione
semplice ma che fatica a far breccia. L’errore sociologistico risale
anche alla famosa riflessione collettanea del ’77 (Le scienze
sociali e la riforma della scuola, Einaudi) tutta a piegatura
sociologica (anche l’ultimo manuale, di Cavalli e altri, che sottotitola
Introduzione alle scienze sociali, soffre di sociologismo).
-
l’equivoco culturologico: la definizione è
sempre di Altan, che parla di errore culturologico che consiste
nell’attribuire alla cultura una separata esistenza ontologica.
Qui pesa la voglia di filosofia, quel voler trovare nei filosofi
la autentica riflessione-problematizzazione delle concettualizzazioni
antropologiche: trionfo – tragico - del paradigma della continuità
epistemologica. Le idee le mettiamo in un unico sacco.
I
deficit del Liceo delle scienze sociali
-
non
si è verificato ancora un netto scarto di discontinuità,
che è parola-chiave multisignificante: *sul piano epistemologico,
comporta l’individuazione di uno statuto proprio delle Scienze sociali,
e in particolare dell’antropologia, in opposizione al tradizionale
asse culturale storico-filosofico-letterario; a tutt’oggi si rileva
una inesistente individuazione della discontinuità nei paradigmi
e una sottovalutazione degli scarti epistemologici (con ovvie ripercussioni
in una didattica in ritirata). *Sul piano didattico, va posta in
primo piano la strategia/progetto in luogo della programmazione
– che è per definizione chiusa, i piccoli aggiustamenti non
cambiano il senso, e esalta l’insegnamento vs. apprendimento (Morin,
I sette saperi, p. 93), è bene puntare su grandi tematiche
unificanti che “saltino” le discipline e concentrazione sul presente
– che non è la cronaca quotidiana ma la contemporaneità
(Callari Galli, Lo studio del presente, in “Iter”, n. 6,
settembre-dicembre 1999), il presente esaspera la discontinuità
e polverizza la continuità “evoca” le genealogie socio-culturali.
*In sottordine: “sorveglianza” sul concetto di paradigma (Morin,
p. 24), passaggio da statuto epistemologico a statuti,
prudenza nell’uso standardizzato della terminologia antropologica:
etnia rischia far passare una etnicizzazione dei rapporti sociali,
cultura, se non è aperta problematica problematizzata e storica,
diventa una gabbia (quella costruita per la prima volta dai colonizzatori,
spesso con gli apporti di antropologi) (F. Pompeo, Il mondo è
poco e AA.VV., L’imbroglio etnico). Importante tener
desto la cultura come concetto-sorvegliante per stanare il conformismo
cognitivo: «Sotto il conformismo cognitivo vi è molto di
più che il semplice conformismo. Vi è un imprinting
culturale, impronta matriciale che inscrive il conformismo in
profondità, vi è una normalizzazione che elimina
ciò che potrebbe contestarlo.» [Morin, I sete saperi,
p. 27].
-
Si sconta
una mancanza di chiarezza sulla società complessa.
È, questo, un concetto ambiguo perché legato all’antropologia
evoluzionistica che, privilegiando la modernità come esito
ideale dell’evoluzione umana, ha identificato complesso con evoluto
e semplice con primitivo (o in genere pre-moderno). Un punto di
vista di forte etnocentrismo e come tale non tanto vagamente razzista.
La complessità esercita un grande fascino perché valorizza
linee epistemologiche che si richiamano all’indeterminatezza, all’incommensurabilità,
agli squilibri, alla turbolenza, alla caduta delle dicotomie e delle
differenze – tra cui quella natura/cultura – utilizzando le procedure
cibernetiche dell’autoregolazione e della retroazione (feed-back).
Va rilevato, comunque, che all’interno della teoria sono individuabili
sostanzialmente due linee, molto distanti tra loro. L’una, rappresentata
da Bateson, Maturana e Varela (dall’antropologia alla biologia,
andata e ritorno), tende verso una forma di oliamo assoluto: in
buona sostanza una neo-dogmatica metafisica del mondo, una nuova
ontologia, che cancella le distinzioni, annulla le differenze, occhieggia
a fuoruscite spiritualistiche. L’altra opzione è rappresentata
da Edgar Morin, che rifiuta qualsiasi oliamo neo ontologico e intende
la complessità come una linea di ricerca in grado di contestualizzare
i fenomeni nella loro rete di interrelazioni che supero anche
la divisione tra natura e cultura. Nell’accezione di Morin,
la complessità indica le interrelazioni e le retroazioni
che agiscono sugli e tra gli individui entro un qualsiasi contesto.
-
La fuoruscita
dalle nebbie della complessità porta alla valorizzazione
delle differenze, all’abbandono di qualsiasi tentazione neo-oggettiva:
dall’antropologia oggettiva alle culture della contemporaneità
(dei mondi contemporanei – Augé) che va studiata in termini
di culturalità, processi di pratiche simboliche politiche
e sociali [Callari Galli]. Nell’orizzonte epistemologico vanno colte
le discontinuità degli statuti epistemologici dell’antropologia
(cfr. la revisione critica e la riflessione epistemologica degli
ultimi due decenni).
Una
prima uscita dall'ambiguità
La contemporaneità
è polisemica. In linea diacronica, è la postmodernità
ma è che la modernità come il contemporaneo a “loro” (agli
scienziati sociali dell’800-anni ’70 del 900). La postmodernità
è il contemporaneo a “noi”: la contemporaneità non si
dà per decreto, è la trasformazione del mondo che ce la
impone [Augé 1994, p. 76]. Sul versante epistemologico la contemporaneità
rinnova lo sguardo antropologico [Augé 1992, p. 27] . Sul piano
della didattica, nella ricerca-insegnamento siamo tutti – insegnanti
studenti/esse - coinvolti nella stessa contemporaneità
che ha bisogno di uno strabismo metodologico: “vedere” i fenomeni differenti/divergenti
della contemporaneità. Ma la contemporaneità è
anche il modello di studio-apprendimento delle Scienze sociali: gli
scienziati sociali studiati non come i filosofi, ma come interpreti
della loro contemporaneità. Le scienze sociali modificano anche
lo statuto epistemologico della didattica: non interessa studiare Durkheim
– ad es. - in quanto tale, interessa sapere ciò che ha
“visto” della sua contemporaneità: solo così si può
rinnovare la “visione”.
Una
seconda uscità dall'ambiguità o chiarire per ripartire
Tre
domande intorno alla cultura.
I)
Colombo e le sirene: «Ci stupisce la sua sicurezza nel catalogare
strane creature incontrate per la prima volta in mari sconosciuti. Che
cosa lo rendeva capace di tanto? La risposta è. La cultura» [G.
Mantovani, L’elefante invisibile, p. 13).
II)
La domanda di Tali: «Come mai voi bianchi avete tutto questo
cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così
poco? […] Possiamo riformulare la domanda così: perché
la ricchezza e il potere sono distribuiti in questo modo? Perché,
ad esempio, gli aborigeni australiani non si sono mesi a un certo punto
a massacrare e conquistare gli europei e i giapponesi?» [J. Diamond,
Ari, acciaio e malattie, pp. 4-5].
III)
Il presente-cambiamento: «In questa prospettiva una pedagogia
che voglia assumere all’interno dei sui apparati teorici e delle sue
pratiche metodologiche le nuove interdipendenze che caratterizzano
l’attuale “commercio tra culture”, che non voglia ignorare le frammentazioni
e le fratture violente che si inseguono senza sosta nell’attuale organizzazione
spazio/temporale, dovrebbe con decisione abbandonare i suoi tradizionali
percorsi, porre al centro della sua riflessione i nuovi meticciati,
le nuove contaminazioni culturali, scegliere come luogo privilegiato
di attenzione le aree di confine, le aree incerte del nomadismo contemporaneo,
rifiutando la centralità che la modernità affidava ad
un’unica cultura, ad un unico dominio. E forse trovare nei luoghi “labili”,
fra i popoli della diaspora, dell’esilio, delle migrazioni, i suoi nuovi
pensieri, le sue nuove parole.» [M. Callari Galli (?), La contemporaneità,
in AA.VV., Un’esperienza innovativa: il liceo delle scienze sociali, Istituto
Statale d’Istruzione Superiore “Montessori”, Roma. 2002, pubblicazione
a cura del MIUR].
Tre
scenari sul nuovo orizzonte epistemologico (locale/globale, vicino/lontano,
l’epistemologia e la pratica dell’incontro: «La forma del conoscere
antropologico è allora da intendersi come l’interpretazione
dell’incontro con l’altro: dell’incontro non dell’altro.»
[G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, p.
15] ).
I)
Augé: gli “eccessi” del tempo, dello spazio, dell’ego
[1992, pp.27-42]
II)
Bauman: il disagio della postmodernità o modernità
liquida, la dissoluzione della comunità in territoriali e extra
territoriali
III)
Beck: dalla modernità categoriale alle categorie-zombi
della postmodernità, la società del non più ma
non ancora
Quattro
passerelle come fuoruscita dall’oggettività.
I)
la psicologia culturale (da Vygotskij a Bruner, da Mantovani
a Martino e a Morin), il contributo: i meccanismi cognitivi sono culturali
II)
L’antropologia dei mondi contemporanei (Augé, Callari
Galli, Appadurai), il contributo: la centralità del presente,
l’indagine sulla nostra cultura (dell’Occidente non più dell’altro esotico),
sorveglianza antropologica sugli errori epistemologici (l’infondatezza
della triade territorio-popolazione-cultura)
III)
Lo sberleffo all’antropologia oggettiva: Geertz o dell’interpretazione
o la cultura della cultura. Le trappole dell’osservazione che condurrebbe
all’oggettività: la proiezione della cultura dell’osservatore
[Martino, L’osservazione in antropologia, in Ziglio-Boccalon,
Lei vede ma non osserva)
IV)
Lo scacco dell’epistemologia della modernità: ricerca
antropologica multisituazionale vs. territorio-popolazione-cultura
L’asse
culturale storico-antropologico esce da questo quadro multiplo che gira
intorno a una polarità: il transito da oggettività/meccanismi
cognitivi neutri a culturalità/meccanismi cognitivi e pratiche
culturali (la ricerca del significato, la conoscenza come ricostruzione/traduzione,
la cultura della cultura e/o le culture delle culture).
L’asse
storico-antropologico come strumento di compattamento strategico dell’indirizzo
di scienze sociali, che prima contamina le “sue” discipline – sulla
linea della culturalità – e poi le “altre”. Se non riesce a diventare
un punto di vista esplicativo alternativo, si “scolarizza”, cioè
si svuota.
Ferrara, marzo 2004
Leonello
Bettin
EPISTEMOLOGIA:
QUADRI SINTETICI
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