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  PASSAGGI. Le Scienze sociali in classe

 

  L'asse storico-antropologico delle scienze sociali

 

Leonello Bettin

 

 

 

La nostra storia didattica       

 

È opportuno iniziare con una breve riflessione sugli elementi negativi o rimasti a uno stadio di bassa riflessione: forse in questo modo si può iniziare a fare un po’ di chiarezza.

Sulle nostre scelte didattiche ha pesato – e continua a pesare – la nostra formazione individuale, perciò c’è chi “piega” verso la psicologia, chi verso la sociologia, chi – sciaguratamente – verso la filosofia, chi, ancora, recupera elementi di pedagogia, ma quasi nessuna assume come punto di riferimento centrale l’antropologia culturale. Sia perché si riflette nella scuola la percezione della modesta rilevanza dell’antropologia (in Italia non esiste una facoltà di Antropologia) sia perché – lo dico brutalmente – è una disciplina che va studiata, a lungo, va meditata, a lungo, ne va penetrata l’ottica epistemologica, a lungo, prima che possa dare contributi didattici rilevanti. Gli insegnanti non sono certo stati facilitati dal cambio di destinazione d’uso, in corsa, dall’Istituto magistrale al Liceo delle scienze sociali: si sono dovuti adattare scontando un retroterra cognitivo-professionale in genere del tutto inadeguato (penso alle quasi 300 scuole coinvolte, è ovvio che vi sono delle positive eccezioni). Anche gli istituti che hanno dato vita fin dal ’74 a un Indirizzo di scienze umane e sociali si sono avvicinati all’antropologia molto tardivamente e in modo non meditato: insomma, aggiungiamo anche l’antropologia.

 

  1. l’equivoco antropologico: data questa base di scarsa riflessività, anche quando è entrata l’antropologia nei nostri curricoli si è rimasti allo stadio che Harrison ha definito di “antropologia spontanea”, pre-disciplinare, difatti si sono letti autori un po’ a caso, senza un progetto e senza la consapevolezza della cornice epistemologica propria dell’autore. Ad esempio si è molto letto, e si continua a farlo, Sesso e temperamento e/o L’adolescenza in Samoa, che vanno bene, niente da dire, però si confonde il semplice con il semplicistico – difetto indifendibile di questi saggi – e inoltre quasi sempre non si tiene conto della cornice epistemologica legata alla teoria di cultura e personalità che esclude qualsiasi influenza ambientale, sostiene che la personalità è interamente costruita dalla cultura, dà una tale idea fissista della cultura che permette agli antropologi di questa scuola di stabilire, quasi ontologicamente, i “caratteri” di intere società, che è ciò che noi, ora, definiamo stereotipi pregiudiziali: gli Arapesh “femminili” valgono quanto gli Scozzesi – o i Genovesi - taccagni. La lettura dei testi va accompagnata da una vigilanza critica-antropologica, altrimenti si trasmettono equivoci cognitivi. Inoltre, come già rilevato, quasi sempre l’antropologia “si aggiunge” alle altre discipline e spesso, per inconsistenza teorica, si fa passare per antropologia ciò che non è.

  1. l’equivoco “storico”: la prima parte della definizione dell’asse culturale, storico-antropologico appunto, è stata e continua ad essere la più bistrattata. O la si è ridotta al quadretto storico o la si è appiattita sulla storia tout-court ritenendo che la povera storia che si insegna nei nostri licei sia una scienza sociale (la nostra è una storia da guerre puniche) o, in ogni caso, si è innestata nella mentalità storicistica della scuola italiana, malata di torcicollo – la testa tende sempre a girarsi in dietro – riproducendo un modello storiografico da paradigma pre-moderno (cfr. K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo, Einaudi, in cui, tra l’altro, ricostruisce il senso del tempo storico dall’antichità alla postmodernità: il nostro “guardare indietro” finisce con l’Ottocento. Chiaro che il discorso cambierebbe se passasse la lezione delle “Annales” che considera la storiografi “storia sociale collettiva” secondo la definizione di Braudel che ritiene le scienze sociali fondanti la ricostruzione storica. Si veda ad esempio Storia, misura del mondo). Su questo innesto è anche nata la passione per la storia dell’antropologia – come la storia della filosofia, della letteratura, della scienza, ecc. Lo “storico” in realtà intendeva rinviare al concetto di “storicamente determinato”, l’idea che la cultura sia un sistema di relazioni simboliche che cambia nel tempo, che la cultura fa coppia con società, tutto al plurale, culture e società, appunto storicamente determinate. Ma da ipotesi interpretativa aperta – dal collegare e coniugare con il concetto di “contesto” di Morin – tende a diventare un sistema chiuso, per quelle derive semplificatrici-semplificanti tanto dannose quanto sempre presenti nella scuola. Si cade così in quello che Carlo Tullio-Altan chiama errore sociologistico che vede la realtà sociale come qualcosa di assolutamente separato e in se stesso autosufficiente (in Antropologia). Dominante in questa visione è il paradigma della modernità che interpreta lo spazio-tempo in termini di pura linearità progressiva e sottende una tensione verso l’oggettività e una fiducia nella soggettività “forte”. Si è arrivati alla scoperta della modernità – una sicura conquista dell’indirizzo – senza rendersi conto che anche questo modello sociale è storicamente determinato e soprattutto finito e se ne sono assunti i paradigmi più rassicuranti. Si procede a vista: le debolezze didattiche dipendono dalla mancanza di riflessione epistemologica: una constatazione semplice ma che fatica a far breccia. L’errore sociologistico risale anche alla famosa riflessione collettanea del ’77 (Le scienze sociali e la riforma della scuola, Einaudi) tutta a piegatura sociologica (anche l’ultimo manuale, di Cavalli e altri, che sottotitola Introduzione alle scienze sociali, soffre di sociologismo).

  1. l’equivoco culturologico: la definizione è sempre di Altan, che parla di errore culturologico che consiste nell’attribuire alla cultura una separata esistenza ontologica. Qui pesa la voglia di filosofia, quel voler trovare nei filosofi la autentica riflessione-problematizzazione delle concettualizzazioni antropologiche: trionfo – tragico - del paradigma della continuità epistemologica. Le idee le mettiamo in un unico sacco.

 

 

I deficit del Liceo delle scienze sociali    

  1. non si è verificato ancora un netto scarto di discontinuità, che è parola-chiave multisignificante: *sul piano epistemologico, comporta l’individuazione di uno statuto proprio delle Scienze sociali, e in particolare dell’antropologia, in opposizione al tradizionale asse culturale storico-filosofico-letterario; a tutt’oggi si rileva una inesistente individuazione della discontinuità nei paradigmi e una sottovalutazione degli scarti epistemologici (con ovvie ripercussioni in una didattica in ritirata). *Sul piano didattico, va posta in primo piano la strategia/progetto in luogo della programmazione – che è per definizione chiusa, i piccoli aggiustamenti non cambiano il senso, e esalta l’insegnamento vs. apprendimento (Morin, I sette saperi, p. 93), è bene puntare su grandi tematiche unificanti che “saltino” le discipline e concentrazione sul presente – che non è la cronaca quotidiana ma la contemporaneità (Callari Galli, Lo studio del presente, in “Iter”, n. 6, settembre-dicembre 1999), il presente esaspera la discontinuità e polverizza la continuità “evoca” le genealogie socio-culturali. *In sottordine: “sorveglianza” sul concetto di paradigma (Morin, p. 24), passaggio da statuto epistemologico a statuti, prudenza nell’uso standardizzato della terminologia antropologica: etnia rischia far passare una etnicizzazione dei rapporti sociali, cultura, se non è aperta problematica problematizzata e storica, diventa una gabbia (quella costruita per la prima volta dai colonizzatori, spesso con gli apporti di antropologi) (F. Pompeo, Il mondo è poco e AA.VV., L’imbroglio etnico). Importante tener desto la cultura come concetto-sorvegliante per stanare il conformismo cognitivo: «Sotto il conformismo cognitivo vi è molto di più che il semplice conformismo. Vi è un imprinting culturale, impronta matriciale che inscrive il conformismo in profondità, vi è una normalizzazione che elimina ciò che potrebbe contestarlo.» [Morin, I sete saperi, p. 27].

  1. Si sconta una mancanza di chiarezza sulla società complessa. È, questo, un concetto ambiguo perché legato all’antropologia evoluzionistica che, privilegiando la modernità come esito ideale dell’evoluzione umana, ha identificato complesso con evoluto e semplice con primitivo (o in genere pre-moderno). Un punto di vista di forte etnocentrismo e come tale non tanto vagamente razzista. La complessità esercita un grande fascino perché valorizza linee epistemologiche che si richiamano all’indeterminatezza, all’incommensurabilità, agli squilibri, alla turbolenza, alla caduta delle dicotomie e delle differenze – tra cui quella natura/cultura – utilizzando le procedure cibernetiche dell’autoregolazione e della retroazione (feed-back). Va rilevato, comunque, che all’interno della teoria sono individuabili sostanzialmente due linee, molto distanti tra loro. L’una, rappresentata da Bateson, Maturana e Varela (dall’antropologia alla biologia, andata e ritorno), tende verso una forma di oliamo assoluto: in buona sostanza una neo-dogmatica metafisica del mondo, una nuova ontologia, che cancella le distinzioni, annulla le differenze, occhieggia a fuoruscite spiritualistiche. L’altra opzione è rappresentata da Edgar Morin, che rifiuta qualsiasi oliamo neo ontologico e intende la complessità come una linea di ricerca in grado di contestualizzare i fenomeni nella loro rete di interrelazioni che supero anche la divisione tra natura e cultura. Nell’accezione di Morin, la complessità indica le interrelazioni e le retroazioni che agiscono sugli e tra gli individui entro un qualsiasi contesto.

  1. La fuoruscita dalle nebbie della complessità porta alla valorizzazione delle differenze, all’abbandono di qualsiasi tentazione neo-oggettiva: dall’antropologia oggettiva alle culture della contemporaneità (dei mondi contemporanei – Augé) che va studiata in termini di culturalità, processi di pratiche simboliche politiche e sociali [Callari Galli]. Nell’orizzonte epistemologico vanno colte le discontinuità degli statuti epistemologici dell’antropologia (cfr. la revisione critica e la riflessione epistemologica degli ultimi due decenni).

 

 

Una prima uscita dall'ambiguità       

 

La contemporaneità è polisemica. In linea diacronica, è la postmodernità ma è che la modernità come il contemporaneo a “loro” (agli scienziati sociali dell’800-anni ’70 del 900). La postmodernità è il contemporaneo a “noi”: la contemporaneità non si dà per decreto, è la trasformazione del mondo che ce la impone [Augé 1994, p. 76]. Sul versante epistemologico la contemporaneità rinnova lo sguardo antropologico [Augé 1992, p. 27] . Sul piano della didattica, nella ricerca-insegnamento siamo tutti – insegnanti studenti/esse -  coinvolti nella stessa contemporaneità che ha bisogno di uno strabismo metodologico: “vedere” i fenomeni differenti/divergenti della contemporaneità. Ma la contemporaneità è anche il modello di studio-apprendimento delle Scienze sociali: gli scienziati sociali studiati non come i filosofi, ma come interpreti della loro contemporaneità. Le scienze sociali modificano anche lo statuto epistemologico della didattica: non interessa studiare Durkheim – ad es. -  in quanto tale, interessa sapere ciò che ha “visto” della sua contemporaneità: solo così si può rinnovare la “visione”.

 

 

Una seconda uscità dall'ambiguità o chiarire per ripartire    

 

 

Tre domande intorno alla cultura.

 

I)                   Colombo e le sirene: «Ci stupisce la sua sicurezza nel catalogare strane creature incontrate per la prima volta in mari sconosciuti. Che cosa lo rendeva capace di tanto? La risposta è. La cultura» [G. Mantovani, L’elefante invisibile, p. 13).

 

II)                La domanda di Tali: «Come mai voi bianchi avete tutto questo cargo e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco? […] Possiamo riformulare la domanda così: perché la ricchezza e il potere sono distribuiti in questo modo? Perché, ad esempio, gli aborigeni australiani non si sono mesi a un certo punto a massacrare e conquistare gli europei e i giapponesi?» [J. Diamond, Ari, acciaio e malattie, pp. 4-5].

 

III)              Il presente-cambiamento: «In questa prospettiva una pedagogia che voglia assumere all’interno dei sui apparati teorici e delle sue pratiche metodologiche le nuove interdipendenze che caratterizzano  l’attuale “commercio tra culture”, che non voglia ignorare le frammentazioni e le fratture violente che si inseguono senza sosta nell’attuale organizzazione spazio/temporale, dovrebbe con decisione abbandonare i suoi tradizionali percorsi, porre al centro della sua riflessione i nuovi meticciati, le nuove contaminazioni culturali, scegliere come luogo privilegiato di attenzione le aree di confine, le aree incerte del nomadismo contemporaneo, rifiutando la centralità che la modernità affidava ad un’unica cultura, ad un unico dominio. E forse trovare nei luoghi “labili”, fra i popoli della diaspora, dell’esilio, delle migrazioni, i suoi nuovi pensieri, le sue nuove parole.» [M. Callari Galli (?), La contemporaneità, in AA.VV., Un’esperienza innovativa: il liceo delle scienze sociali, Istituto Statale d’Istruzione Superiore “Montessori”, Roma. 2002, pubblicazione a cura del MIUR].

 

 

Tre scenari sul nuovo orizzonte epistemologico (locale/globale, vicino/lontano, l’epistemologia e la pratica dell’incontro: «La forma del conoscere antropologico è allora da intendersi come l’interpretazione dell’incontro con l’altro: dell’incontro non dell’altro.» [G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, p. 15] ).

 

I)                   Augé: gli “eccessi” del tempo, dello spazio, dell’ego [1992, pp.27-42]

II)                Bauman: il disagio della postmodernità o modernità liquida, la dissoluzione della comunità in territoriali e extra territoriali

III)              Beck: dalla modernità categoriale alle categorie-zombi della postmodernità, la società del non più ma non ancora

 

 

Quattro passerelle come fuoruscita dall’oggettività.

 

 

I)                   la psicologia culturale (da Vygotskij a Bruner, da Mantovani a Martino e a Morin), il contributo: i meccanismi cognitivi sono culturali

II)                L’antropologia dei mondi contemporanei (Augé, Callari Galli, Appadurai), il contributo: la centralità del presente, l’indagine sulla nostra cultura (dell’Occidente non più dell’altro esotico), sorveglianza antropologica sugli errori epistemologici (l’infondatezza della triade territorio-popolazione-cultura)

III)               Lo sberleffo all’antropologia oggettiva: Geertz o dell’interpretazione o la cultura della cultura. Le trappole dell’osservazione che condurrebbe all’oggettività: la proiezione della cultura dell’osservatore [Martino, L’osservazione in antropologia, in Ziglio-Boccalon, Lei vede ma non osserva)

IV)              Lo scacco dell’epistemologia della modernità: ricerca antropologica multisituazionale vs. territorio-popolazione-cultura

 

 

L’asse culturale storico-antropologico esce da questo quadro multiplo che gira intorno a una polarità: il transito da oggettività/meccanismi cognitivi neutri a culturalità/meccanismi cognitivi e pratiche culturali (la ricerca del significato, la conoscenza come ricostruzione/traduzione, la cultura della cultura e/o le culture delle culture).

L’asse storico-antropologico come strumento di compattamento strategico dell’indirizzo di scienze sociali, che prima contamina le “sue” discipline – sulla linea della culturalità – e poi le “altre”. Se non riesce a diventare un punto di vista esplicativo alternativo, si “scolarizza”, cioè si svuota.

 

 

 

Ferrara, marzo 2004

Leonello Bettin

 

 

 

EPISTEMOLOGIA: QUADRI SINTETICI

 


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